martedì 3 aprile 2012

cantiere

Dentro una gabbia. E' ancora buio e le tapparelle soffocano l'aria. "Dammi quattro! Gira, gira...!". "Stringiti bene, nun fa scherzi, daje tre giri". Sistemo con la mano nel buio i libri sul comodino, prima che scivolino. Ecco: Virginia è caduta, aperta, su Eliot. A tentoni trovo la bottiglia d'acqua. Bevo come fosse piena notte, e una sete da pazzi. Invece saranno le otto, otto e trenta.
Scivolo fuori dalle lenzuola accartocciate, allargo la fessura di luce verso il corridoio, e già arriva il cigolio della carriola. Su e giù, giù e su. La visuale fuori dalla finestra è spezzata dai tubi. Il silenzio frantumato dall'arcigno sbattere del metallo, mentre le auto arrivano e vanno, vanno e vengono.
Non faccio neanche pipì anche se mi scappa e mi siedo furtiva al computer. Lo accendo e quel tempo già mi pare perso. Non ho tanta pazienza, allora mi alzo e srotolo la schiena, allungo le braccia verso l'alto. Sono vestita? Ho una camicia da notte estiva ed è solo marzo, ma la notte ho sempre caldo. La spallina è bella alta, non si intravede nulla dalla finestra. Una corda mi oscilla davanti "Altri tre e settantacinque!".
Solo il rumore mi preoccupa. E il non poter girare per casa non vestita. Dovermi affacciare prima di passare anche solo davanti a una stanza con delle finestre mi scoccia un po'. Non poter piangere troppo. O urlare troppo, che capita e come se capita. Questa non è una casa degli spiriti. Qui si rivoltano carne e pelle.
Sento che il LAVORO invade lo spazio intimo, privato, della vita qual è. Il LAVORO degli altri che mi pare così, visibile e reale, qui a camminare davanti alla mia finestra dalle sette alle sedici. Il LAVORO si muove come un teatro cinese di figurine di cemento e mattoni. Il LAVORO è fatto di minuti e secondi uno dietro l'altro, a tirare e abbassare, misurare e attaccare, sollevare e trasportare, stringere e intonacare.
E' una coperta di voci, alcune come strilli degli animali della giungla, su e giù dalle impalcature come macachi "Eho" "Ahiì" "Vai", e rimbalzano da una terrazza all'altra, scivolando lungo le assi che inclinandosi salgono, si fissano, sbattono al muro e ci assediano con piglio incalzante, senza discrezione. Sul balcone occupato è terra di nessuno. I vasi sono accatastati e tutto è polvere e secchielli, polvere e tenaglie, intonaco e spatole, coltelli, cazzuole, pinza, frattazzo, badile, martello, scalpello, pialla. Su "Google" il mio muratore ha proprio tutto. Mi siedo, il computer ora è acceso. Controllo la posta e arriva uno sconquasso dietro l'orecchio. Viene dalla cucina. Va bene: questo concerto comincia a diventare familiare, in un certo senso è come se mi sentissi protetta. La fune fuori dalla finestra è rimasta sospesa, tesa verso terra, e oscilla. Il "controllore", come lo chiamo io, ha una faccia bonaria, striglia per bene tutti, anche un ragazzetto secco "scrocchi'ossitti" con gli occhi azzurri e la faccia scolpita e scura. "Stringi bene quella fune, cazzo! Alla cavalla (?). Poi dici che...". Un poco tendo il collo per vedere sotto, e lo vedo: sta lì, col naso piatto in su e le braccia incrociate a "guardare". Non mi va di farmi vedere. Se devono vedermi lo decido io. Sono veloci, però, più veloci del solito. Non ho grandi parametri rispetto ad altri cantieri. ma a me paiono veloci. Non so se sia un bene o un male. Apro la mia cartella "15", prendo "Cane" e mi sembra di esser pronta ma ecco un'altra voce, e un martello. Voce e martello. "NOOO!" urla il regista da sopra. Che sarà successo? Dio, pare sempre che stia per accadere qualcosa. Tra queste voci e i rumori che si sovrappongono corre una tensione innaturale, come prima di una battaglia, come se stesse sempre per accadere un evento da scongiurare. C'è l'eccitazione da catastrofe imminente. Passa nei loro sguardi, nei movimenti dei loro muscoli, nel senso di controllo verticale. Sorvegliare. Sorvegliare e punire. Che farà "scrocchi'ossitti" tornato a casa? Ce l'ha una moglie o dei figli? Quanto guadagna al mese? Più di me? Cosa vede al cinema? Ogni tanto piove un "Ooooh!". Ce l'hanno con me? Perché questi suoni entrano in casa mia, mentre sono seduta al computer, o ancora nel letto, o sotto la doccia. E se uno di loro cade. Sono tre impalcature, fissate al muro. E' questo che si teme ma si accetta, come rassegnati a una compagna sempre presente ma silenziosa? Hanno il caschetto, prima uno non ce lo aveva quando gli ho fatto il caffè. Neanche un galletto ha voluto.
...
...
Beh, ora avete smesso? Cos'è questo silenzio? E la corda? Dov'è finita? E la carrucola lancinante?Per favore, riprendete a martellare, a urlare, a tirare su le funi e battere coi martelli e far tremare i muri, i vetri, l'aria di urla e voci.
Formicola il mio pc. Clicco il mouse. Sono le 16. A domani.

martedì 27 gennaio 2009

tra me e me

non so cosa mi succeda. ho sempre diviso la concezione della mia vita tra trascinamento e destino. l'impegno se c'è si scioglie in attesa, un gioco a dadi con il tempo. mi dico di fare questo e quello e di lì a poco tutto svanisce, tutto salta. e la mia volontà si infrange violentemente contro le cose i fatti e ancora contro la mia volontà o indolenza.
ora che qualcuno di piccolo e luminoso mi inchioda alle mie giornate, pretendendo da me una devozione totale e incondizionata, fatta di abbracci e parole incomprensibili, seni di continuo offerti e cantilene dalle parole sbagliate stremata e appagata mi domando cosa sarà di me. ho paura di dimenticare me stessa, di perdere un senso, una direzione che forse non c'è mai stata. anche il dolore pungente nel cuore dimentico. e se il senso di colpa mi travolge non posso comuqneu farci nulla.
perchè ho un figlio

giovedì 8 gennaio 2009

c'è ancora

c'è così poco sonno, interrotto continuamente e il suo piccolo volto che ha mille e poche espressioni. poche che già le conosco tutte a memoria. piovono bombe sulla striscia di gaza e siamo qui al calduccio della nostra casetta di cartapesta in affitto, con tutto l'amore e la minaccia del latte in polvere.
soffrirò quando non potrò più allattare, mi sembrerà di non adempiere più a una mansione davvero indispensabile per lui e l'universo. oggi ci pensavo, ma sarà anche la lontananza di un corpo che non sentivo così mio nemmeno durante i mesi di gravidanza.
ho voglia di tempo per me, ma allo stesso tempo non saprei come farne a meno, delle sue manine polipette e dei suoi occhi che vanno in estasi roteando.
riuscirò mai a parlare di qualcos'altro?
tornerò a lavorare, parlerò con altre persone, e sognerò sempre di scrivere e girare.
e c'è ancora tutto il resto. c'è la stanza in clinica. c'è la strada.

lunedì 15 dicembre 2008

la bocca

La bocca la tiene socchiusa, anzi quasi aperta quando dorme. Come me. Le labbra tremano e gli occhi si muovono sotto le palpebre rosate. I primi giorni si vedevano i puntini nuovi di zecca, ipotesi di cellule attraverso la trasparenza del naso, che già a quaranta giorni ha preso consistenza.
Sono obbligata a fissarlo, a lungo. La fretta, la distrazione a cui siamo abituati ora in me deve necessariamente scomparire. Siamo legati, costretti l’uno a l’altro, pancia a pancia in un abbraccio che mi fa incurvare la schiena, circondarlo con le mie braccia e seguire con i miei i suoi occhi roteanti. A mandorla, perfetti.
La mia vita non era sincopata, ipertrofica, intasata. Ma avevo cose da fare, pensieri da rincorrere, anche con piglio rilassato, troppo rilassato a detta di alcuni. E lui me l’ha frenata. Con un breve preavviso, come un treno che rallenta in vista della stazione e non può fare altro se non vuole squarciare lo schermo.

giovedì 23 ottobre 2008

Pensavo a due ospedali come a due entità. Una buona, l’altra cattiva. Una con dentro mio padre, una con dentro mio figlio. Vicini entrambi, lungo il fiume. Io che corro lungo la strada, con i polpacci gonfi, facendo la spola da uno all’altro.
Pensavo a quello che succede quando arriva la morte, improvvisamente. Mentre ti infili le scarpe da ginnastica per andare al parco e trovi il tempo per preoccuparti di una cosa sciocca, di programmare la cena, sapere quando saremo di nuovo a casa, prevedere, possedere.
L’incertezza economica, di sopravvivenza nella vita sempre bilanciata da un amore infinito per essa, una banale passione e attaccamento a ogni suo istante, con tutto il seguito di egoismo e possessione. Ma anche lieve serenità, contrastante eppure persistente. Perché è essere incosciente, felice nell’immediato per quel che in qualche modo si è di certo costruito ma senza affaticarsi, gustando la leggerezza della fatica.
Gravidanza senza prospettive di contratto futuro, solo più o meno vane speranze. Eppure la gioia nel risveglio quotidiano in un’incoscienza purissima fatta di fiducia sconsiderata. In cosa poi? In me? Nella fortuna? Nella materialità delle cose? Perché poi? Perché amo? Perché riamata? Perché credo di avere qualcosa, come una pietra avvolta, non solo nel ventre scoperto?

Lungo questa strada, il dolore si è tramutato. Esiste, permane, riemerge a tratti più acuto. Non dimenticherò mai i giorni dall’infarto di mio padre a oggi, quelli che verranno. Quei primissimi in cui la realtà frena tutto a un tratto, la vista si dilata, i corpi e i confini si fanno nitidi e più lenti all’osservazione. Cambia tutto, come se la vita fino a qual momento fosse stata un insieme di grida confuse, varie, né belle né brutte. Con tutta l’attenzione che mi è stato insegnato di avere anche per un solo, piccolo battito d’ali. Per le voci, per le facce, per i movimenti.
Eppure, tutto ha preso un’altra direzione. Ripeto spesso che manca la paura. Delle malattie, delle cose che pure mi sarebbero potute accadere durante la gravidanza, so che non poteva accadermi niente. Il mio corpo, la mia mente tutta protesa a parare uno, e un solo immenso colpo.
Uno dei giorni successivi, non il primo né il secondo. Che i piegavo in due e avevo bisogno di camminare, parlare mi è servito come non mai. Ho ascoltato come non mai.
Ricordo le parole di Giovanni sulla panchina a villa Ada. La mia vita concentrarsi in sé, sollevarsi e serrarsi in ranghi maggiori.
L’assenza, la sparizione, la mancanza. Non esiste nulla di più terribile. Perché siamo vivi sempre e abbiamo bisogno del contatto e dell’essere. Mio padre mi era essere interiore. Lo è ancora.
Nel frattempo, cambio corpo. Sono grande adesso, fatta di sostanza maggiore sulla pancia, nelle braccia, sulle guance. Non che sia mai stata vuota, o esile. Ma ora sono dura come un tamburo. Risuono e schiocco e tu dentro che ti muovi non riesci nemmeno a farmi male. Oscilli dentro come il pesce nella sua boule. Sembri parlare anche, ma non capisco cosa dici.

mercoledì 17 settembre 2008

abitacolo

così, ancora, anche se il sole si è raffreddato siamo fermi in attesa.
oppure ci muoviamo. io sono un'incubatrice fiera e impaurita, cammino a testa alta con la pancia a punta, fendendo l'aria. mia madre si è fatta un uccellino dolcissimo che non può distogliere il pensiero dalle gambe inflaccidite di papà.

aspettiamo. aspettiamo tutti. non ho un lavoro al momento, non ho da scrivere, sempre da leggere, ma preferisco camminare per sentire il sangue scorrere il corpo battere e volversi, andare.
di cinema, di letteratura voglio snetire parlare. dentro la testa incamero piccoli frammenti.
la doccia e l'acqua bollente, gli uccelli impazziti fuori.
la musica nell'abitacolo dell'auto.

domenica 14 settembre 2008

pioniera

cos è una storia? me lo domando sempre. per le diverse strutture che ho appreso, in fondo quasi sempre una e una sola, non dovrebbe essere complicato delinearne il perorso, lo sviluppo. men che mai attingendo alla realtà debordante di fatti e individui e sogni e paludi.
eppure ricollegare nella strettezza, ricondurre a un senso la bellezza dei fatti che accadono così, indipendenti e liberi come pesci, sconnessi come fili di un albero di natale, appare sempre impossibile. avvicinandomi al momento della resa dei conti, tutto si annichilisce.
ma ricordo che c'entra qualcosa uno sforzo di volontà immane, che non so se riuscirò a fare à nouveau.
e poi. che storia raccontare? quale urgenza preme questa vita? infinite, sovrapposte come cartine attorno a una pralina prelibata.

risveglio. unità di risveglio.

queste parole troppo piene di attesa, aspettativa. noi non le possiamo capire così some sono. e non si può aspettare che noi le capiamo così come sono.

non ci sono molti cambiamenti. la pancia è scesa. il movimento è ormai riconoscibile. mi piace parlare con tecnici del campo, all'ostetrica chiederei mille cose. è un desiderio strano, non smanioso, di sapere cose sul mio corpo. non ho mai avuto l'ossessione in questo periodo, ma è lusingante, si dice lusingante?, avere qualcuno che sa come funziona, che anticipa le mie sensazioni, che mi indica le conseguenze.

è strano, ma vorrei che questo momento non finisse. mi piace essere arrivato a questo punto della sfida, meno di venti giorni.
mi sento una pioniera, mi sento poco prima di una grande impresa della quale voglio avere il bene e il male.