giovedì 23 ottobre 2008

Pensavo a due ospedali come a due entità. Una buona, l’altra cattiva. Una con dentro mio padre, una con dentro mio figlio. Vicini entrambi, lungo il fiume. Io che corro lungo la strada, con i polpacci gonfi, facendo la spola da uno all’altro.
Pensavo a quello che succede quando arriva la morte, improvvisamente. Mentre ti infili le scarpe da ginnastica per andare al parco e trovi il tempo per preoccuparti di una cosa sciocca, di programmare la cena, sapere quando saremo di nuovo a casa, prevedere, possedere.
L’incertezza economica, di sopravvivenza nella vita sempre bilanciata da un amore infinito per essa, una banale passione e attaccamento a ogni suo istante, con tutto il seguito di egoismo e possessione. Ma anche lieve serenità, contrastante eppure persistente. Perché è essere incosciente, felice nell’immediato per quel che in qualche modo si è di certo costruito ma senza affaticarsi, gustando la leggerezza della fatica.
Gravidanza senza prospettive di contratto futuro, solo più o meno vane speranze. Eppure la gioia nel risveglio quotidiano in un’incoscienza purissima fatta di fiducia sconsiderata. In cosa poi? In me? Nella fortuna? Nella materialità delle cose? Perché poi? Perché amo? Perché riamata? Perché credo di avere qualcosa, come una pietra avvolta, non solo nel ventre scoperto?

Lungo questa strada, il dolore si è tramutato. Esiste, permane, riemerge a tratti più acuto. Non dimenticherò mai i giorni dall’infarto di mio padre a oggi, quelli che verranno. Quei primissimi in cui la realtà frena tutto a un tratto, la vista si dilata, i corpi e i confini si fanno nitidi e più lenti all’osservazione. Cambia tutto, come se la vita fino a qual momento fosse stata un insieme di grida confuse, varie, né belle né brutte. Con tutta l’attenzione che mi è stato insegnato di avere anche per un solo, piccolo battito d’ali. Per le voci, per le facce, per i movimenti.
Eppure, tutto ha preso un’altra direzione. Ripeto spesso che manca la paura. Delle malattie, delle cose che pure mi sarebbero potute accadere durante la gravidanza, so che non poteva accadermi niente. Il mio corpo, la mia mente tutta protesa a parare uno, e un solo immenso colpo.
Uno dei giorni successivi, non il primo né il secondo. Che i piegavo in due e avevo bisogno di camminare, parlare mi è servito come non mai. Ho ascoltato come non mai.
Ricordo le parole di Giovanni sulla panchina a villa Ada. La mia vita concentrarsi in sé, sollevarsi e serrarsi in ranghi maggiori.
L’assenza, la sparizione, la mancanza. Non esiste nulla di più terribile. Perché siamo vivi sempre e abbiamo bisogno del contatto e dell’essere. Mio padre mi era essere interiore. Lo è ancora.
Nel frattempo, cambio corpo. Sono grande adesso, fatta di sostanza maggiore sulla pancia, nelle braccia, sulle guance. Non che sia mai stata vuota, o esile. Ma ora sono dura come un tamburo. Risuono e schiocco e tu dentro che ti muovi non riesci nemmeno a farmi male. Oscilli dentro come il pesce nella sua boule. Sembri parlare anche, ma non capisco cosa dici.

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